Yusry al-Ýul “Il passaggio”


    Translated by: Daniele migliore
    Orientale University - Napoli

    Ai margini di quest’epoca gli uomini tirano profondi respiri, stanchi dei labirinti del passato. E nel caos del passaggio si liberano respiri che anelano a porti lontani, gli uomini si precipitano dentro lo stretto valico, coperto di crepe. Chiedono umilmente e affannosamente perdono a Dio e lo ringraziano per averli fatti entrare nelle porte del presente. I passeggeri del pullman scendono riparandosi dalla luce che arriva da oriente nel punto del passaggio. Uno dopo l’altro. Una scia di odore satura del delirio della fame li insegue, la sofferenza nei vecchi quartieri militari da cui si snodano i rivoli di pioggia che emanano il profumo del sogno, la morte alla fine del canale addormentato.

    Camminava tra loro senza paura verso l’orizzonte, avvolto in un manto di illusione, annientato dall’immagine della prigione e, sulla viscida porta del presente che interrogava il passato, scivolò nelle stanze della perquisizione per entrare nelle quali aveva aspettato a lungo, cinque giorni prima di riuscire ad arrivare. Con forza teneva stretto nella mano il permesso di passaggio e il passaporto verde, barcollava un po’, assonnato, quasi addormentato. Volse lo sguardo verso il vetro scuro al di là del quale appariva la figura di una soldatessa che si divertiva a tormentare le persone più anziane di lei con il metal detector.

    Una volta cancellata l’immagine, restava comunque reale il ricordo. Lo colse una strana sensazione che avrebbero potuto arrestarlo in quel momento, nonostante l’avessero lasciato libero di viaggiare. L’eterno pensiero che si prendeva gioco del suo stesso animo lo ossessionava, sembrava che l’avessero lasciato andare per liberarsi della fatica di cercarlo, ed ecco che ora lui ritornava. Il dolore nascosto era vivo nel suo animo. La soldatessa lo osservava da molto lontano. L’icona del viso raggrinzito lo ossessionava, come se l’avesse già visto prima.

    Gli restituì gli abiti, le sue cose che non valevano niente, le sue scarpe consumate. Lui osservò le rughe sulla fronte corrucciata di lei, la fissava con insistenza. Un uccello si librava verso l’orizzonte lontano. I suoi legami con loro si erano allentati ancor prima che l’avessero abbandonato. Erano suoi compagni. Un corpo solo, ma alla fine i dubbi sul suo cambiamento avevano cominciato a ossessionarli. Avevano cambiato il loro modo di fare dopo essere scampati alla morte ed essere ritornati alla vita dell’accampamento. Il passaporto passò attraverso lo sportello degli usurpatori. Stava fermo in silenzio, lo prese dalle mani del soldato che gli sorrise con diffidenza. Avrebbe voluto sputare addosso a entrambi se avesse potuto.

    Tornò in sé, prese il permesso per entrare nell’angusta città, attraversò i lunghi corridoi, persi nei labirinti delle ferite. Il dispositivo di sorveglianza suonò e lui subito si bloccò. Il soldato gli ordinò di fermarsi. L’odore di casa, da lui tanto desiderato, lo abbandonò. Si fermò vicino alla soldatessa di colore, “profonda” come il deserto del Negev. Aveva un’aria infelice, ma lui avvertì il suo profumo voluttuoso. Il soldato gli ordinò di togliersi la cintura, e lui lo fece. Passò per quel punto senza parlare. La chitarra in silenzio suonava le sue antiche armonie. Tornò allo stesso posto in cui si trovava l’autobus che si sarebbe diretto verso il quartiere. Sorrise nell’attraversare di nuovo il passaggio buio, la sua ombra lo seguiva come morta, sembrava sussurrare grazie al suo creatore. Sulle spalle portava il suo pesante bagaglio.

    I suoi passi che lasciavano visibili le tracce ora lo conducevano verso la patria che gli sembrava di vederla finalmente. Camminava veloce, cantando felice per essere sfuggito all’assedio dell’ombra, mentre una lacrima spuntava, senza che lui lo volesse, tra le ciglia prima di cadere a terra in quel fetido punto di passaggio. Fu ricompensato dalla pace del luogo. Voleva sognare di aver davvero raggiunto quel posto. Allungò il passo ma non vedeva niente. I piedi strusciavano a terra. Aveva detto addio alla famiglia come un fantasma che non sarebbe ritornato, mentre le lacrime suonavano la prima sinfonia del non-ritorno. Giustizia volle che lui rimettesse piede sulla sua tenace terra, rigida come il volto di un morto, ribelle. Dai sacchetti della spazzatura si spandeva un odore insopportabile che si spargeva ovunque.

    L’odore si fermava nella nebbia del silenzio, lo bloccava, lo avvolgeva, e lui lo inspirava nauseato. Rivolse uno sguardo di odio verso ciò che rimaneva di quell’immagine. Chiuse la porta del lontano passato. Non sarebbe mai più tornato indietro. Raggiunse il filo spinato che circondava la città. Appoggiò la testa sulla sabbia che lo accolse come se fosse un’innamorata che lei aveva abbandonato dopo anni di aridità e di conquista. L’autista gli chiese in che direzione voleva andare. Lui si guardava intorno, osservava i lineamenti del viso duri, il dolore affiorava su quella massa di corpi umani ricoperti di ferite, avrebbe voluto zittirlo ma la forza del silenzio lo frenò. L’autista gli disse un'altra volta urlando:
    - Si può sapere dove vuoi andare?
    Con voce assonnata, triste, disse:
    - Gaza.
    L’autista si fermò avvilito, e si mise a fissare stupito quel corpo tormentato dal ricordo della rivoluzione e della rabbia; infine uscì dal silenzio, che lo avvolgeva insieme alla tristezza.
    Il tono della sua voce era angosciato, pieno di sofferenza. Mentre una lacrima gli scendeva sulla guancia, mormorò:
    - Questa zona è stata divisa in quattro parti una settimana fa, e non sappiamo quando sarà tolto il blocco.
    Stette in silenzio mentre l’altro, sfinito, chiuse gli occhi provando l’ebbrezza di una piccola vittoria. Tutta la notte dormì tranquillo circondato dallo splendore del buio. Un desiderio sfrenato lo colse, lo tormentò, lo avvolse, circondandolo tutto mentre attendeva di compiere l’ultimo passo per raggiungere la sua anima lontana.